Quando è giunta la notizia che
il Vescovo di Urbino Mons. Giovanni Tani apriva le porte della “Domus Mariae”
del Pelingo tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. E’ stata una risposta
concreta a un grido d’aiuto per accogliere persone in cerca di un futuro
lontano dalla guerra, data senza valutare rischi di natura economica. Il
Prefetto aveva chiamato all’appello i rappresentanti delle Istituzioni per arginare
l’emergenza, da lui definita come “la prima di una serie”, ma solo dopo due
giorni di riunioni, telefonate e proposte, i quaranta profughi nigeriani sbarcati
nel porto di Siracusa finalmente avevano un posto in cui trovare asilo. Sono
cristiani cattolici e la domenica hanno partecipato alla messa nel santuario adiacente.
Ritengo sia stata una grossa
fortuna poter essere presente all’arrivo del pullman scortato dalla Polizia. Impattare
in quegli sguardi provati dall’esodo è stato emozionante. La Caritas di Urbino
e di Pesaro, i volontari della Croce Rossa e gli operatori della Labirinto
erano lì per dare loro il benvenuto, distribuire i vestiti che tanta gente
aveva donato e sistemarli nelle loro stanze per una doccia che ripulisse lo
sporco e le ferite di un passato dolente verso l’inizio di una nuova vita in
cui mettere la speranza al posto della paura.
Volentieri avrei condiviso
quei momenti con coloro che in questi giorni, senza conoscere la realtà dei
fatti, hanno commentato con rabbia l’arrivo di questi ragazzi, definendoli “uno
schiaffo a tutti quegli italiani onesti che hanno lavorato per quarant'anni per
ritrovarsi con nulla nelle mani”.
Queste parole dimostrano che a
volte ci scordiamo di essere parte di una civiltà fondata su valori culturali e
non su pregiudizi da bar. Chiunque si sarebbe rimangiato le parole se avesse
visto e ascoltato di persona, anzi, forse avrebbe fatto come il comandante dei
Carabinieri di Acqualagna che è corso a casa a recuperare degli indumenti;
oppure come alcuni abitanti del posto, all’inizio intimoriti, che commossi da
tanta umanità, volevano scambiare parole di conforto. Come ha giustamente scritto
don Marco Di Giorgio, direttore della Caritas di Pesaro “Non credo si possa far
confliggere l’accoglienza di chi non ha niente e viene da terre insanguinate,
con la giustizia sociale e la lotta alla crisi. Sono valori da portare avanti
insieme. Non è respingendo chi ha diritto d’asilo che diventeremo più ricchi”.
Quest’esperienza deve farci
riflettere: se noi fossimo nati in un Paese povero e colpito dalla guerra, a
cosa saremmo stati disposti pur di essere liberi?
Avremmo avuto il coraggio di
lasciare la nostra terra verso luoghi ignoti? Attraversando il deserto
infestato di predoni? Sopportando la prigionia e le torture dei miliziani
libici? Vendendo tutti i nostri averi per salire in una barcarola scassata e
attraversare il Mediterraneo? Avremmo avuto la faccia tosta di chiedere aiuto? E
se l’uomo europeo, che ci ha schiavizzati per decenni, invece di tenderci la
mano ci avesse ributtato a mare?
Non so, si potrebbero fare
mille ragionamenti, ma a volte è meglio stare in silenzio e ascoltare il cuore.
C’era un uomo che duemila anni
fa in Galilea andava predicando così: “ogni volta che avete fatto queste cose a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”.
a cura di Matteo Donati
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