Ci sono guerre in ogni parte del mondo e ce ne sono di ogni
tipo. Possono scoppiare per i motivi più diversi, ma una cosa è certa: l’odio e
la divisione sono tratti che le accomunano tutte quante. La mia guerra è
scoppiata a casa mia, avevo solo 13 anni e come ogni conflitto che si rispetti,
ha cambiato delle vite.
Di studiare non ne avevo alcuna voglia. Ero il classico
bambino “intelligente, ma che non si applica abbastanza”. Ho fatto la prima
media e dopo aver cominciato per tre anni consecutivi la seconda ho chiesto a
mio padre di poter andare a lavorare. Mi piaceva sporcarmi le mani e l’idea di
essere un po’ indipendente. Così grazie ad alcuni amici di famiglia ho
conosciuto un idraulico disposto a farmi fare la gavetta da apprendista. Erano
gli anni ottanta e all’epoca molte cose oggi impensabili erano all’ordine del
giorno...
La mia era la classica famiglia “normale”, dove non accadeva
mai niente di pazzesco. Io ero il terzo di quattro figli. Genitori operai che
non si preoccupavano più di tanto di me, perché c’era sempre qualcosa di più
importante o perché in fondo non gliene importava. Per questo potevo
permettermi di fare quasi tutto quello che mi pareva, tipo uscire fino a tardi,
frequentare gli amici più grandi, guidare il mio motorino pur non avendo
compiuto i 14 anni e fare le mie prime esperienze da bulletto. Ma niente di eccezionale.
Poi un giorno è scoppiata la bomba. Il problema è che nessuno
mi aveva avvisato e io non ero pronto. Scoppiò all’improvviso, all’inizio
dell’inverno.
Tornavo da lavoro a tutto gas in sella al mio cinquantino.
Iniziava a fare buio e piovigginava. Quando arrivai a casa mi accorsi che avevo
scordato le chiavi, quindi suonai al campanello del palazzo. Nessuno rispose.
Provai un’altra volta, ma niente. Allora citofonai a uno dei vicini che mi
aprì. Potevo almeno ripararmi dal freddo dentro il garage. Là dentro c’erano la
lavatrice, delle biciclette, varie cianfrusaglie e una poltrona grande di
velluto verde. Mi accomodai e siccome ero molto stanco mi addormentai in fretta
senza nemmeno rendermene conto. Ero un bellissimo bambino moro con la testa
reclinata da una parte. Le mani piccole, ma già segnate dal lavoro. La tuta blu
come i grandi e tanti sogni nel cassetto che un giorno o l’altro avrei voluto
prendere tra le dita e farli diventare grandi insieme a me.
Mi svegliai con l’eco di quelle urla spaventose. Doveva
essere capitato qualcosa di terribile. Mi alzai di fretta, ancora un po’
frastornato. Sentivo la voce di mia madre che chiedeva aiuto e si mescolava
alla voce di mio padre che invece la offendeva e le diceva cose terribili, prive
di ritegno. Senza nemmeno avere il tempo di pensare mi affacciai alla porta
finestra che dava sul giardino interno e vidi mia madre stesa per terra che
urlava a mio padre di smetterla e lui che la riempiva di calci e insulti. Poi
afferrò una sedia e iniziò a colpirla con forza. A quel punto mi salì un fuoco
dentro che mi tolse ogni ragionevolezza. L’istinto mi guidò ciecamente e con un
pugno sfondai la porta tagliandomi tutta la mano. Ma il sangue io non lo vedevo
e il dolore non lo sentivo. Feci irruzione. I miei occhi stavano incollati a
mio padre che stava facendo una cosa orribile. Come nei film, solo che in casa
mia era raro assistere anche solo a un litigio, quindi non poteva essere vero.
Doveva esserci uno sbaglio tremendo. Oppure stavo ancora sognando. Invece no, era
tutto vero. Era vera anche la mia mano che prese un coltello e iniziò a scagliarsi
sul corpo di quell’uomo che ormai non era più mio padre, ma un estraneo, un
invasore, un assassino. Ed era strana la sensazione della lama che tagliava e
affondava alla rinfusa, vestiti, pelle, aria, senza una logica, con lui che
gridava cose incomprensibili contro il mio silenzio di rabbia. Cercava di
difendersi da una piccola furia cieca, ma si vedeva che aveva paura. Fu una
sequenza rapida e fredda. Non aveva senso nulla, fino a quando si aprì la
porta, che fu come uno schiaffo e mi fece ragionare, evitando il peggio. Sulla
soglia c’erano mio fratello con mia sorella di dieci anni. Gli urlai subito che
doveva uscire e portarla via. Non era giusto che lei vedesse. Seguirono attimi
di sospiri e affanni che riportarono lucidità. Mia mamma dolorante piangeva con
le gambe strette al petto, piena di paura. Mio padre, ferito, ma non in modo
grave uscì dalla stanza, andò via di casa imprecando, non so verso dove. A
medicarsi, credo. Io gettai l’arma in terra e mi accorsi che la ferita alla mia
mano era seria. Stavo perdendo molto sangue. Cercai di rassicurare mia madre,
poi tornò mio fratello che ci portò all’ospedale.
Una bomba atomica sulla mia vita. Non trovo espressione più
appropriata. Niente poteva essere più come prima. E infatti da quel giorno
iniziarono i miei tanti guai. Non ci furono denunce, né conseguenze legali.
Quella scena rimase solo nostra, ma ci portò il silenzio reciproco e la
divisione. Potrà sembrare assurdo, ma non ne parlammo più. Prima di allora
avevo fatto sempre una vita normale. Mi ero sempre sentito il figlio prediletto.
Da quel momento i nostri rapporti rimasero sospesi, si agghiacciarono. E io mi
trasformai nel figlio ferito, che aveva sofferto troppo e tutto in un colpo
solo.
Non erano certo i quindici punti di sutura a fare male.
Quelli al massimo davano un po’ di fastidio. Il problema era un altro: aver
assistito impotente al crollo del mio mondo, di tutte le mie certezze, senza sapere
cosa ci stava dietro. E non volevo nemmeno fare le domande: sono gli adulti che
cercano sempre di capire e spiegare le cose, non i ragazzini. Io sapevo solo
che in mezzo a quel cumulo di macerie non ci volevo stare. Dovevo difendermi da
tutto quel male. L’unico modo era andare via e crearmi un mondo tutto mio, dove
potevo starmene al riparo e leccarmi le ferite. Girare pagina. Desideravo
andare lontano da coloro che mi avevano tradito e sbattuto in faccia il marcio
che c’era dietro l’apparente normalità. Avvenne tutto in modo repentino. Già da
tempo frequentavo ragazzi più grandi di me e non era facile procurarmi i mezzi
per fuggire. In una settimana ho provato tutte le droghe che mi era stato
possibile trovare.
Da quel momento iniziò la mia ribellione, dissolta in un
graduale estraniamento dalla realtà. Scoprii che la droga mi aiutava a
sotterrare i ricordi, a pensare meno e a punirmi per aver perso la
spensieratezza. Preferivo fare del male a me stesso piuttosto che agli altri.
Ero io a cercarla e mano a mano le davo modo di conquistare terreno, pezzi di
me. Ero un gatto randagio. Stavo ore lontano da casa. A volte nemmeno tornavo a
dormire. E in tutto questo i miei genitori decisero di continuare a vivere
insieme, da separati in casa. Facendo finta che le cose fossero tornate al loro
posto. Si illudevano che ciò che si era spezzato poteva ricucirsi grazie alla
terapia del tempo che passa e che offusca la memoria. Forse per loro poteva
anche funzionare, ma non per me. Io quel giorno non lo dimenticherò mai. Io non
ero più parte di quella famiglia: ero uno zombie che si aggirava nei paraggi
dell’appartamento, che non parlava con nessuno e che si era conquistato la
libertà di fare ciò che gli pareva. Nessuno ebbe mai il coraggio di tirare
fuori l’argomento, di parlare di ciò che era accaduto, di chiarire. Non io. Non
i miei genitori. Non i miei fratelli e nessun altro.
La prima volta che sono finito in carcere nemmeno me ne sono
reso conto. Me lo hanno raccontato dopo: avevo preso a calci la vetrina di un negozio
e l’avevo sfondata. Ovviamente ero sotto l’effetto di qualche sostanza e non ho
ricordi ben chiari. La cosa mi faceva quasi sorridere. Ero diventato una
piccola peste. La pecora nera della famiglia, da non credere! Ma almeno si
accorgevano di me. Ero al centro dell’attenzione. E in carcere, col passare
degli anni, ci tornai almeno altre quindici volte. Sempre per brevi periodi. Dentro
e fuori, dentro e fuori, commettendo reati di tutti i tipi, ma soprattutto
legati all’uso e allo spaccio di stupefacenti. La prigione per me divenne quasi
una cosa normale, un ambiente a me noto, con le sue regole, i suoi spazi e i
suoi tempi. Non posso dire che mi piaceva, ma in qualche modo ero riuscito a capire
come viverci senza farmi troppe paranoie sulle privazioni, la lontananza e via
discorrendo. La mia testa ragionava così.
Nel mezzo di tutta questa bella storia ebbi pure il tempo di
incontrare una ragazza che divenne la mia fidanzata. Era una tipa acqua e
sapone. Vestiva sempre dei maglioncini chiari che si accostavano splendidamente
ai suoi capelli lisci e castani. Ascoltava a ripetizione i Public Enemy, gli
Smiths e i Doors, i suoi gruppi preferiti. Apparentemente sembrava una tipa
tranquilla, in realtà in lei ho sempre percepito una certa inquietudine. Tutto sommato
ci stavo bene, mi faceva divertire e non era per niente opprimente. Così le ho
fatto conoscere i miei amici.
Andavamo spesso a casa loro e io sapevo perfettamente che tra
questi c’era qualcuno che si faceva di eroina. Io no. Non l’avevo mai toccata. Mi
dicevo sempre “col cavolo che mi sparo quella roba. Lo vedo l’effetto che fa su
sta gente. Non riuscirei a farne più a meno e starei malissimo”. Poi un giorno
la mia ragazza mi disse che i miei amici le sembravano strani. Fuori dalla realtà.
Come sospesi sul mondo: collassavano ogni volta che guardavamo un film insieme,
non riuscivano mai a concentrarsi veramente su niente. All’inizio cercai di
giustificarli con delle scuse assurde, poi le raccontai la verità. E lei mi
colse in contropiede. Mi disse: “ma perché non la proviamo anche noi?” E io la
presi a sberle. Quella richiesta mi fece proprio arrabbiare. Non volevo
assolutamente cascare in quella trappola, quindi cercai di essere fermo e le
feci pure un po’ male. Ma il giorno dopo mi sentivo troppo in colpa per quello
che le avevo fatto e per farmi perdonare arrivai da lei con una dose: fu
l’inizio della mia fine.
Non mi piace parlare di questo argomento. Se ripenso a quanto
ho sofferto mi riaffiora tutto il dolore e fa ancora molto male. Anche dentro
le ossa. L’eroina ti leva tutto: i sentimenti, l’amicizia, il corpo, la casa, il
senso. Oggi ne sono uscito e posso dare la mia testimonianza al mondo. A tutti
i ragazzi che vivono situazioni complicate. A loro dico non arrendetevi mai e
non accontentatevi di ciò che avete, soltanto perché ce l’avete lì davanti.
Siate come i pesci che affondano nell’acqua o come gli uccelli che risalgono le
correnti del vento. Liberi di essere felici. Non fatevi bastare la mediocrità. E
non si tratta di una teoria, qui c’è in gioco la vita, per la miseria! Ma vorrei
farmi sentire soprattutto dai genitori che spesso si scordano che i loro figli
sono un miracolo da valorizzare e custodire. E che il regalo più bello che gli possono
fare è amarsi tra loro. Il papà e la mamma che si vogliono bene. Tutto qui. Un
regalo di inestimabile valore, ma che non si può comprare come il motorino o la
Play Station. Lasciatevelo dire da uno a cui l’amore è mancato. Che lo ha
desiderato tanto, ma gli è stato tolto.
Mi viene da piangere adesso. Perché in fondo sono fortunato.
Ancora sono vivo. Ancora respiro. Anche se oggi la mia casa è la mia prigione e
devo scontare gli ultimi sei mesi di arresti domiciliari. Ho rischiato più
volte di morire, ma la vita mi è rimasta sempre cucita addosso.
Io credo che anche nei momenti in cui l’uomo tocca il fondo e
rasenta il confine con l’essere bestia, c’è sempre un foro di luce dal quale è
possibile vedere la speranza di ricominciare da capo. E non sto parlando solo
della droga. Che per alcuni può sembrare una realtà lontana. Ognuno ha i suoi
mostri da sconfiggere nella vita. Siate onesti con me vi prego, come io sono
stato onesto con voi. Potete mentire a me, ma non a voi stessi. Bisogna essere
sempre molto vigili, mai abbassare la guardia. Prima o poi arriva per tutti il
momento della guerra e in certi casi scoppiano pure le bombe atomiche. Sono le
volte in cui scendiamo dal nostro piedistallo. Prima ci credevamo supereroi, sicuri
e fieri di noi stessi, poi ci guardiamo allo specchio e vediamo una persona
ferita e sconfitta. Che ha bisogno di aiuto, di qualcuno che gli dia una mano a
recuperare la dignità. A meno che il nostro orgoglio non ci impedisca di farci
aiutare.
Ma lo capite che non è una favola? Che il mestiere di
esistere è una cosa seria? Io ho un nome e un cognome e la mia è una storia
vera e vorrei che parlasse al vostro cuore. Non per compatirmi, ma per tenere
accesa la luce della speranza.
Io ho intravisto la luce proprio nel momento in cui stavo
sfiorando la morte: strinsi il laccio al braccio, cercai la vena più sporgente
e infilai l’ago. Spinsi lo stantuffo all’indietro lasciando entrare un po’ di
sangue, poi accompagnai l’eroina dentro di me. Lentamente. Mandai giù la saliva
poi mi alzai facendo sparire ogni traccia. Dopo qualche istante il mio corpo si
squagliò a terra e mi dissociai dall’universo.
Entrai nella ionosfera. Uno dei cerchi gassosi attorno alla
terra dove si incontrano raggi solari e raggi cosmici. Sentivo un diffuso e
totale senso di pace. Ero tutto e niente. Attraverso un tunnel di luce mi
trasformai in entità spirituale. Ero aria, vento, spirito, pensiero semplice.
Poi vidi in mezzo a un cumulo di nubi una signora bellissima che mi guardava
con uno sguardo molto affettuoso e attorno a lei delle creature angeliche che
cantavano. Provai ad avvicinarmi, ma per rispetto mi fermai. Era bellissimo
stare lì in quel tepore. Senza preoccupazioni, problemi, scadenze, sentenze.
Più guardavo quella signora e più mi sentivo amato. Semplicemente amato. Anche
se non parlava. Pensai di restare lì per sempre, che non avevo più bisogno di
niente, perché finalmente avevo trovato la mia pace.
Tornai sul pianeta terra col suono delle sirene e il medico
che mi aveva appena somministrato il Narcan, l’antagonista degli oppioidi. E’
stato come ricevere un milione di spilli in corpo mentre precipitavo da una
cascata. Brivido totale. Agghiacciante e traumatico. Esausto mi riaddormentai.
Quando riaprii gli occhi c’erano i miei genitori davanti a
me. Vicini. Loro piangevano e io con loro. Un po’ mi vergognavo perché mi
avevano scoperto, ma ero anche felice di rivederli insieme e cercavo di
tranquillizzarli perché mi sentivo benissimo. Ero stato in un posto splendido e
avevo sentito dentro di me che ce la potevo fare e che la cosa più importante è
amare e sentirsi amati. A me sembrò la dimostrazione che Dio non ha paura di
venirci a prendere nei momenti e nei luoghi più scandalosi della nostra vita.
Anche se ci ostiniamo a non volerlo tra i piedi Lui ci ama a tal punto che è
disposto ad aspettarci. Perfino a un centimetro dalla morte. E noi, che abbiamo
sempre la libertà dalla nostra parte, dobbiamo scegliere: stare con Lui che è
infinito o bastare a noi stessi e accontentarci di qualcosa che prima o poi finirà.
La mia vita adesso è complicata perché posso uscire di casa
solo tre giorni a settimana per andare a svolgere dei lavori socialmente utili
in una cooperativa sociale. Lì cerco di mettere tutto il mio impegno per il
bene di chi è messo peggio di me. Per il resto me ne devo stare chiuso nella
mia casa-prigione, pagare l’affitto e le bollette. In un modo o nell’altro devo
far passare questi ultimi sei mesi. Con le forze dell’ordine che mi vengono a
trovare in ogni ora del giorno e della notte. Occupo il tempo facendo alcune
piccole manutenzioni, ascolto e compongo musica e progetto il mio futuro. Sì,
mi darete del pazzo, ma io guardo al futuro, perché ho deciso di non dichiarare
fallimento. Tutto ciò che ho vissuto mi ha insegnato a guardare avanti e a credere
che se sono ancora qui, qualcuno mi sta dando un’altra opportunità.
Nel mio cassetto ho ancora una dozzina di sogni da prendere
tra le dita e farli diventare grandi insieme a me.
Matteo Donati
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