martedì 12 dicembre 2017

C'E' UN DISEGNO DIETRO A OGNI COSA



L'ospedale è un signore grigio che vorrebbe andare in pensione. Si trova nel cuore della città. A dieci minuti d'auto dalla Casa Circondariale. Glielo si legge in faccia che è stanco e che non ne può più, ma non ha scelta: deve resistere.
Entro che ancora ho il fiatone. Mi piace far girare veloci i pedali nelle budella del centro storico. Schivare i passanti. Però questa volta è diverso. Non è un gioco.
Mi hanno chiamato con urgenza. L'infermiera al telefono aveva usato pochi giri di parole:
-Abbiamo ricoverato Jimmy, è in fin di vita, qua non c'è nessuno. Può venire?
-Certamente. Arrivo subito. Rispondo.
Jimmy è un uomo di 58 anni. Albanese, e molto fiero di esserlo. Sono albanese come Madre Teresa, gli piaceva sottolineare. La sua famiglia era di origine musulmana e arrivò in Italia in quel famoso 8 agosto 1991 sulla nave Vlora, la Nave Dolce. Quella che prima trasportava zucchero e finì col traghettare un pezzo di umanità in fuga. Con lui c'erano la moglie incinta, due figli piccoli e altre ventimila persone, letteralmente aggrappate a quell'imbarcazione ricoperta di corpi. Il più grande sbarco nella storia delle nostre coste. Rappresentò il culmine di un esodo iniziato poco dopo la caduta del Muro di Berlino. Poi anche in Albania le cose cambiarono e con la fine del regime comunista Jimmy prese la grande decisione. Voleva il meglio per la sua famiglia, e il meglio nel suo immaginario era l'Italia. La vedeva e la sognava tutti i giorni alla televisione. Si sentiva disposto a tentare la traversata.
Partirono e il viaggio fu molto duro. Non si dormiva e si correva il rischio di rimanere soffocati. Ma quando arrivò il giorno a illuminare i contorni del porto di Bari, sorrise. E gridava a squarciagola insieme ai ventimila: I-ta-lia! I-ta-lia! I-ta-lia! Scandivano ogni sillaba con impeto. Che impatto, che scena emozionante. Sentiva che ne era valsa la pena: iniziava una nuova storia, per sè e per la propria famiglia.

Jimmy è un lenzuolo. Cioè Jimmy e il lenzuolo sono praticamente la stessa cosa. Un soffio bianco esalato sopra il letto di un ospedale qualunque in un corridoio grigio qualunque. Mentre mi avvicino sento che per me è una fortuna essere lì. Come se non fossi io a condurre tutto quanto. Quasi che la vita mi stesse accompagnando in un posto importante. Di quelli che poi non si scordano. Esattamente come sulla Vlora. Sì, anche io sono in balìa del mare, sulla Nave Dolce. Devo solo avere il coraggio di aggrapparmi, tenermi stretto, poi sarà lei a condurmi verso terre mai viste prima. Del resto si sa, non si è mai abbastanza pronti per affrontare un viaggio.

La prima volta che incontrai Jimmy era ubriaco e mi fece abbastanza ribrezzo. Tecnicamente io ero un operatore sociale della Caritas alle prime armi, responsabile di una struttura che tutti conoscono con il nome di Centro di Ascolto. I volontari me lo avevano descritto come uno tra i più "pericolosi" e "ingestibili" frequentatori incalliti del centro. Era da poco tempo uscito dal carcere. Quando mi vide tentò di spaventarmi con parole grosse e un tono di voce arrogante. Voleva dei soldi. Un po' mi fece tenerezza e decisi di capire quale sofferenza ci fosse dietro quell'uomo.
-Posso venire a vedere dove abiti? Gli chiesi.
-Neanche gli animali vivono dove sto io. Rispose.
Il giorno dopo arrivai puntuale all'appuntamento. Di fronte a una vecchia concessionaria d'auto abbandonata. Mi disse che era contento di vedermi, che non credeva sarei andato veramente. Per raggiungere il luogo in cui viveva, siamo dovuti passare attraverso le inferriate della fabbrica, che si trovava ribassata rispetto al livello della strada, in un punto dove erano state visibilmente forzate. Da lì ci siamo calati, appoggiando i piedi sopra una sedia, per poi arrivare finalmente al pavimento. Era pieno di vetri rotti, rifiuti e calcinacci che si erano staccati dal soffitto. In fondo alla struttura c'era una stanzina con l'insegna "toilette". Lì dentro c'erano un vecchio materasso, dei vestiti ammucchiati e qualche candela. La sua casa.
-Tu vivi qui dentro?
-Si, ti prego, aiutami. Non ce la faccio più.

E' inutile illudersi: fra poco Jimmy morirà. E io non potrò fare nulla se non stargli vicino, fargli un po' di compagnia. Volergli bene. Che non è una cosa scontata. Ho dovuto imparare a volergli bene. Quando ancora era in salute, appena uscito dal carcere, per come si presentava era la sintesi perfetta di un uomo odiabile: arrogante, permaloso, violento, bugiardo, opportunista, per di più amante del Tavernello rosso in cartone, che andava ad amplificare terribilmente tutti questi aggettivi fastidiosi. Adesso invece è come un neonato. Indifeso. Dopo due anni di lunga malattia è come se ogni singola cellula del suo corpo stesse scomparendo. Per fortuna gli effetti della morfina lo aiutano a soffrire meno. E' sveglio. Non riesce a parlare, ma mi guarda. Con affetto.
-Ciao Jimmi. Gli dico.

Cercai una soluzione concreta al suo problema: non poteva continuare a vivere in quella latrina. Pensai a una roulotte. Anzi, un amico me la propose. Non era di certo il massimo, ma intanto poteva andare bene e Jimmy accettò molto volentieri. Così, in qualche modo iniziò un'amicizia. O forse qualcosa di più. Nel tempo diventai come un figlio per lui. E un po' alla volta mi raccontò la sua storia. Gli anni del regime, la fuga dall'Albania, l'arrivo in Italia, l'illusione di aver trovato l'America. Ma le cose non andarono proprio come se le era immaginate. Da una parte la difficile integrazione nel Nuovo Mondo, cultura e abitudini molto distanti rispetto a quelle di Tirana; dall'altra il suo pessimo carattere e l'abuso di alcol fecero precipitare la situazione.
Jimmy lo sapeva. La colpa era solo sua. Aveva rovinato tutto con le proprie mani. Quelle mani piene di rabbia che lo incatenarono più volte sotto il municipio per protestare contro il Sindaco che non gli dava una casa più grande. Quelle mani oltraggiose che aggredivano le assistenti sociali del Comune incapaci di trovargli un lavoro. Quelle stesse mani, forti e ciniche, che una notte colpirono sua moglie. Era tornato a casa ubriaco. Gli occhi dei suoi figli, spaventati, videro tutto. Qualcuno chiamò la Polizia. Lo arrestarono.

Rimango vicino a lui, in silenzio. Non so per quanto tempo, forse dieci minuti. Vorrei parlargli. Per farlo stare tranquillo. Vorrei potergli dire che andrà tutto bene, che presto guarirà. Ma sto zitto. Le parole non mi vengono proprio. Devo andarle a pescare da qualche parte. Estrarle con forza. Sento che devo farlo. Con la bocca un po' asciutta per la tensione gli chiedo una cosa molto precisa. Pronuncio una frase che mi ero preparato in tutta quell'attesa, la migliore che ero riuscito a tirar fuori.
-Jimmy, la vuoi fare quella cosa lì?
Mi ha risposto subito. Non aveva bisogno di pensarci o di capire. Ha detto di sì con la testa. Guardandomi negli occhi. Serenamente complice. Consapevole del peso delle sue parole.
-d'accordo, torno fra poco. Gli dico.

In carcere rimase per più di quattro anni. Quel che basta per diventare ancora più cattivi e pieni di rabbia. Fallito ogni tentativo di ri-educazione del detenuto. Nessun sconto di pena e divieto assoluto di avvicinamento alla sua famiglia. Una volta fuori non aveva più nulla. Non aveva più nessuno e si rifugiò nel vino. Perfetto scarto della società. Non gli rimase che la vita di strada. Una vita dura, disumana, che nessun uomo meriterebbe di fare e che alla lunga ti mette alle corde. Così un giorno mi riferì che i risultati delle analisi erano positivi.
-Ecco perchè non mi sentivo bene. Ho un cancro ai polmoni, ma io non mi arrendo, mi disse, lo ammazzo io, sono più forte.
Ancora una volta emergeva la sua sfrontatezza di uomo pieno di orgoglio, arrabbiato con il mondo. Ci sono voluti due lunghi anni per la resa finale. Due anni di visite, chemioterapia, tac, dolori, medicine...poi il ricovero in una struttura sanitaria privata che lo ha accolto con vero spirito di carità. E Jimmy si è arreso non tanto alla malattia, quanto all'idea di rileggere tutta la propria vita. Da capo. E togliere l'odio, montagne di odio, incrostazioni e risentimenti. Raccontare la rabbia, ma per darle un senso, non più per fare o farsi male. Trovare il coraggio di richiamare i figli, che nel frattempo erano diventati grandi e che si sono commossi nel vederlo morente. Ho trascorso tanto tempo con lui, a parlare, a confrontarmi, a cercare di trovare uno spiraglio, anche se piccolo. Per poter dire che nonostante tutto, la vita è una cosa meravigliosa e fino all'ultimo istante hai la possibilità di vederla come un dono e non più come uno sgarbo del destino. Fino al giorno in cui Jimmy, provato dal dolore, ma anche arreso a quel pulviscolo di bontà depositato nell'anima mi disse:
-Come posso fare la pace con Dio?

Vado verso un distributore automatico. Metto dentro un euro e schiaccio il pulsante dell'acqua naturale. Torno da Jimmy con la bottiglia. Mi ritrovo a pensare a don Bosco. A quando incontrava i ragazzi di strada per le vie di Torino. Giovani orfani, abbandonati, ignoranti, poveri, senza più niente e nessuno. Don Bosco stava in mezzo a loro, condivideva i loro giochi e per parlargli di Dio non aveva bisogno di chissà quali formule, perchè non lo avrebbero capito. Ma dire un Pater Ave Gloria non era poi così difficile. Ed era a partire dalle cose semplici che li conduceva a vivere cose più profonde. Jimmy è come uno di loro. Povero di spirito, vagabondo della vita, così lontano dalla conoscenza della verità e dalla comprensione dei dogmi.
Dopo avergli chiesto il permesso inizio a recitare quelle poche preghiere. Lui, col suo filo di voce, muovendo a stento le labbra, ripete con me.
-Ave Maria...Padre Nostro che sei nei cieli...Gloria al Padre e al Figlio e...
Adesso mi tremano un po' le mani.

Fare la pace con Dio. Quella frase me l'ha ripetuta varie volte, in diversi incontri: dopo aver fatto la pace con la propria vita e con se stesso sentiva un bisogno più profondo. Fare la pace con Dio. Ogni volta era come se la consapevolezza di voler ricevere un perdono più grande aumentasse, di pari passo con l'aggravarsi della sua malattia. Trovare una roulotte era stato facile, ma questa richiesta voleva una risposta più importante. Chiesi aiuto a un amico sacerdote. Mi disse che nonostante Jimmy non fosse cristiano, chiedendo il sacramento del Battesimo avrebbe ricevuto la Grazia del perdono dei peccati. Così come solitamente avviene per i bambini.

Stavo per fare una cosa molto più grande di me. Una delle più importanti della mia vita. Che non  mi sarei aspettato di vivere. Jimmy me lo aveva chiesto chiaramente qualche giorno prima, ma in quel momento non c'era tempo di andare a cercare un sacerdote. La chiamata era giunta improvvisa e sentivo che poteva spegnersi da un momento all'altro. 
Presi il tappino della bottiglia, gli misi qualche goccia d'acqua e gliela versai sulla fronte dicendo piano:
-Jimmy io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Lui sorrise appena, aveva gli occhi pieni di felicità.
Lo segnai sulla fronte, sulle labbra e sul petto.
Silenzio.
A quel punto fu lui a prendere l'iniziativa e con le ultime forze che gli rimanevano alzò il suo braccio per due volte per fare anche a me il segno della Croce sulla fronte.
Che potenza quel gesto. Era la sua benedizione per me.
Poi entrambi capimmo che non rimaneva più niente da fare.
Solo aspettare.
La vita attorno a noi procedeva come sempre. Passi nei corridoi, sorrisi, preoccupazioni, affari, fiori, caffè...
Pensavo a quella citazione che ogni tanto Jimmy mi ripeteva: "C'è un disegno dietro ogni cosa".
Mi dava speranza.
Ormai non mi guardava più veramente.
I suoi occhi e la sua mente erano già proiettati altrove.
Dopo tanto dolore Jimmy voleva la pace.
Chiuse gli occhi e non li riaprì mai più.

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